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La tutela della propria immagine

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La tutela della propria immagine

L’articolo 10 del codice civile disciplina l’abuso dell’immagine altrui prevedendo che “Qualora l’immagine di una persona o dei genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’abuso, salvo il risarcimento dei danni”.
La norma testé citata non definisce compiutamente la nozione di abuso dell’immagine altrui, nozione che si ricava in negativo dalle norme di dettaglio che regolamentano i casi in cui, invece, è legittimo tale uso. In particolare il riferimento specifico è agli artt. 96 e 97 della legge n. 633/1941e implicitamente al codice della Privacy.
Elemento indispensabile per l’utilizzo legittimo dell’immagine altrui è rappresentato dal consenso “esplicito” da parte dell’avente diritto, consenso che può manifestarsi mediante un atto che assume i connotati del negozio giuridico.
È preferibile da parte del titolare dell’immagine la manifestazione di un consenso espresso che indichi i limiti di durata e le modalità di utilizzo dell’immagine, al fine di evitare un uso improprio della stessa e quindi lo sconfinamento nell’abuso.
L’art. 97 della legge n. 633/1941, tuttavia, regolamenta casi in cui il consenso del titolare del diritto non è necessario; la norma chiarisce all’uopo che “ Non occorre il consenso della persona ritratta, quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico.
Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritratta”.
Sottesa a tale norma vi è una evidente esigenza di bilanciamento di interessi contrapposti che, in casi tassativi, giustificano la “compromissione” del diritto in esame, salvo il rispetto del decoro e della reputazione.
È di tutta evidenza che l’abusiva e non autorizzata diffusione dell’immagine altrui è causa di un danno di tipo patrimoniale nella misura in cui, l’immagine indebitamente utilizzata sia fonte di lucro per il soggetto abusivamente ritratto, danno il cui quantum è onere del titolare del diritto dimostrare mediante presunzioni derivante anche dalla notorietà del soggetto danneggiato.
La diffusione non assentita per fini commerciali o altro di persona non nota, determina comunque l’insorgenza di un danno patrimoniale (anche non patrimoniale come dopo vedremo) stante il permanere della violazione da parte dell’utilizzatore non legittimato. In questa evenienza si riscontrerà una differenza del quantum del risarcimento del danno, fermo restando la sussistenza dell’an dello stesso risarcimento.
L’art. 10 del codice civile prima citato, infatti, legittima il titolare dell’immagine, a , impropriamente utilizzata ad adire l’autorità giudiziaria mediante domanda atta ad accertare l’illiceità del comportamento del terzo e conseguentemente chiedere la cessazione della diffusione dell’immagine e il risarcimento del danno, anche sub specie di danno non patrimoniale (esistenziale – morale). Quest’ultima evenienza nell’ipotesi in cui la condotta contra ius del terzo abbia una rilevanza penale, così come disposto dall’art. 185 del codice penale.
Controversa è la questione attinente la risarcibilità dell’eventuale danno non patrimoniale a prescindere dalla commissione di un fatto di reato.
Una parte della dottrina e della giurisprudenza avvalora l’assunto della risarcibilità del danno non patrimoniale, nel caso de quo, in disparte la commissione del reato, valorizzando la natura del diritto all’immagine, ritenuto a buon diritto, personalissimo ed inalienabile e quindi avente copertura costituzionale, legittimante la sua risarcibilità giusto il disposto dell’art. 2059 c.c. secondo cui “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge.”
La copertura costituzionale del diritto in questione lo renderebbe tipico e quindi ossequioso della riserva (relativa) di legge vigente in tema di danno non patrimoniale.
Inoltre è lo stesso legislatore che col citato art. 10, in maniera espressa, ammette la risarcibilità del danno.
Pertanto, la condotta del terzo potrebbe integrare una responsabilità aquiliana sub specie di danno ex art. 2043,c qualora vi siano dei riflessi economicamente apprezzabili e di danno ex art. 2059 per profili non patrimoniali da valutarsi mediante criteri evidentemente equitativi.
Come noto, infatti, una condotta non iure e contra ius è potenzialmente idonea a cagionare la lesione del diritto altrui che, conseguentemente, può determinare l’insorgenza di un pregiudizio sia di tipo patrimoniale che non patrimoniale.
L’art. 2043, clausola generale del nostro ordinamento giuridico, disciplina la responsabilità extracontrattuale stabilendo che “ Qualunque fatto doloso o colposo , che cagiona ad altri un danno ingiusto , obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”.
Tale norma non esaurisce le voci di danno che un determinato “fatto” può cagionare; si occupa del pregiudizio patrimoniale che il predetto fatto ha etiologicamente cagionato, lasciando aperta la possibilità di dimostrare l’esistenza anche di pregiudizi di tipo non patrimoniali da parte del soggetto danneggiato secondo le regole probatorie dettate in tema di responsabilità extracontrattuale.

La tutela della propria immagine può aversi anche mediante la configurabilità di una responsabilità di tipo contrattuale. Come prima accennato il consenso all’utilizzo dell’immagine altrui, può (anzi è preferibile) aversi mediante la stipula di un contratto che regolamenti in maniera analitica le modalità di utilizzo della predetta immagine, i tempi e i luoghi di esposizione della stessa, oltre, evidentemente, ai profili patrimoniale derivante dal suo utilizzo.
È di tutta evidenza che, la violazione dell’accordo contrattuale determinerà una responsabilità per inadempimento ai sensi dell’art. 1218 c.c., con la naturale conseguenza della presunzione di responsabilità in capo al debitore che tale norma pone e le differenze in tema di onere della prova, quantum risarcibile e da ultimo, del termine prescrizionale dell’azione di responsabilità contrattuale (1223, 1225, 1227, c.c.).
Giova ricordare che l’esposizione o la pubblicazione dell’immagine altrui è abusiva anche quando, pur ricorrendo quel consenso legittimante l’utilizzo, sia tale da arrecare pregiudizio all’onore, alla reputazione o al decoro della persona medesima.

In quest’ottica è possibile configurare in capo al terzo gli estremi di una condotta penalmente rilevante che, se idonea appunto a ledere la reputazione del soggetto abusivamente ritratto, potrebbe integrare l’ipotesi prevista dall’art. 595, comma 3, del codice penale che contempla l’offesa alla reputazione recata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità.
Sul punto costantemente la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “ Il reato di diffamazione è configurabile anche quando la condotta dell’agente consista nella immissione di scritti o immagini lesivi dell’altrui reputazione nel sistema “internet”, sussistendo, anzi, in tal caso, anche la circostanza aggravante di cui all’art. 595, comma terzo, c.p. (Cass. pen. sez. V, n. 4741/2000).
La diffamazione, che è reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa e dunque, nel caso in cui frasi o immagini siano state immesse sul web, nel momento in cui il collegamento viene attivato (Cass. pen. sez. V, n. 25875/2006; Cass. pen. sez. V, n. 16262/2008).

A cura dell’Avv. Giacomo Barbara