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Il tempo speso su Facebook, Whatsapp, Youtube o le offese all’azienda o al datore di lavoro, possono costare il licenziamento

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Il tempo speso su Facebook, Whatsapp, Youtube o le offese all’azienda o al datore di lavoro, possono costare il licenziamento

Sono diventate numerose le sentenze che affrontano il rapporto tra ambiente lavorativo e uso dei cellulari per la navigazione in internet per fini personali e per divertimento: in caso di uso dei social durante il lavoro, si rischia il posto.

Sicuramente la navigazione su internet per fini privati è vietata sia quando avviene tramite il computer dell’ufficio che con il tablet o lo smartphone personale: non è tanto il supporto, infatti, ad essere la causa dell’illecito disciplinare quanto il tempo sottratto alle proprie mansioni lavorative

Anche l’uso della connessione a internet dell’azienda può essere causa di illecito, come nel caso di chi usa la rete wi-fi aziendale per commettere reati:   scaricare file musicali coperti dal diritto d’autore mettendo così a rischio la stessa azienda. Con una recente sentenza la Cassazione ha ritenuto legittimo licenziare il dipendente che scaricava film porno sul proprio computer utilizzando la rete del datore di lavoro.

Secondo la Corte il datore può far ispezionare il computer in dotazione al dipendente e licenziarlo se scopre che vi ha scaricato video pornografici, anche perché l’azienda rischierebbe un procedimento penale laddove i filmati dovessero riguardare minorenni, cioè materiale pedopornografico.

Si tenga peraltro conto che il datore può mettere sotto controllo cellulari, pc e tablet aziendali dati in comodato ai propri dipendenti senza che ci sia alcuna violazione né della privacy, né dello Statuto dei lavoratori.

Se, nonostante il divieto, il dipendente dovesse usare Facebook dal proprio cellulare, la sua condotta verrebbe comunque ritenuta irregolare e punita sulla base del tempo trascorso sul social. Si passa dalle sanzioni più leggere, come il richiamo verbale, l’ammonizione scritta, la multa e la sospensione dal lavoro, al licenziamento. La Cassazione, di recente, ha confermato il licenziamento alla segretaria che stava sempre su Facebook dal computer aziendale.

Anche le foto sul profilo sono una prova: il datore di lavoro può utilizzare le foto postate su Instagram da un dipendente assente con permesso, per provare che, in realtà, egli era intento ad attività per nulla compatibili con le giustificazioni fornite al datore: chi è assente per malattia e invece si fa un selfie in palestra, chi sta usufruendo delle giornate di permesso retribuito della legge 104 per assistere un parente disabile e che invece fotografa un panorama durante una gita.

Ma la Cassazione non da tutto per scontato: infatti la foto potrebbe essere anche tratta da un archivio di immagini del cellulare scattate in un momento precedente.

Per cui, ribadiscono i giudici supremi, non si può licenziare il dipendente malato solo perché ha pubblicato una foto che dimostrerebbe il suo stato di salute: il controllo delle assenze dal lavoro può essere effettuato soltanto con la visita fiscale e dunque l’azienda deve rivolgersi al medico di controllo dell’Inps se reputa che sia simulata la patologia lamentata dal prestatore d’opera . L’articolo 5 dello Statuto dei lavoratori, infatti, vieta gli accertamenti da parte del datore sull’idoneità dell’infermità per malattia o infortunio del dipendente.

Infine un dipendente che intende parlare dell’azienda presso cui lavora è tenuto ad usare un linguaggio moderato e rispettoso: anche il solo partecipare a un forum di discussioni in cui si parla male del datore o dei suoi prodotti può costare il posto.

Secondo la Cassazione si può essere licenziati per un like: tutte le volte in cui l’utente di Facebook, dimostrando con il proprio commento di condividere la critica di altri e le forme espressive illecite usate da altri, può essere condannato.

Scatta dunque il licenziamento per chi, su internet, parla male dell’azienda.

Allo stesso modo non è consentito parlare male del datore, altrettanto non è permesso sparlare su Facebook dei colleghi. Non solo perché, così facendo, si rischia una querela per diffamazione ma anche perché si mina alla serenità del lavoro d’ufficio e quindi si pregiudica la produttività.

Ecco perché in questi caso la sanzione per l’incompatibilità ambientale può essere il trasferimento o, nei casi più gravi, lo stesso licenziamento. E, come chiarito dalla Cassazione, la diffamazione scatta anche se le offese non hanno un destinatario ben individuato con nome e cognome: il semplice riferimento generico, che consenta tuttavia di individuare il destinatario delle frasi ingiuriose, è vietato.